Rassegna trimestrale BRI, marzo 2015 - briefing stampa

Gli articoli monografici rispecchiano le opinioni degli autori e non necessariamente il punto di vista della BRI. Si prega pertanto di attribuire agli autori, e non alla BRI, eventuali riferimenti a tali articoli.

Dichiarazioni on-the-record rilasciate da Claudio Borio, Capo del Dipartimento monetario ed economico, e Hyun Song Shin, Consigliere economico e Capo della Ricerca, il 16 marzo 2015.

Claudio Borio

Come ci mostrano giorno dopo giorno i mercati obbligazionari, i confini dell'impensabile sono assai elastici. Alla fine di febbraio $2 400 miliardi circa di debito sovrano a lungo termine venivano scambiati con rendimenti negativi. Di questi, oltre $1 900 miliardi erano riconducibili ai soli paesi dell'area dell'euro. Da allora, la tendenza discendente non si è fermata. Gli ultimi dati indicano che i rendimenti francesi, tedeschi e svizzeri sono negativi per le scadenze fino a quattro, sei e 10 anni rispettivamente.


In Le avventure di Tom Sawyer Mark Twain ci insegna che l'essenza di una buona gestione consiste nel convincere i nostri amici a imbiancare la staccionata per noi, e a farci pagare per tale privilegio. Stando a questo criterio, alcuni soggetti sovrani hanno superato il maestro.

La causa immediata di questa situazione senza precedenti non è difficile da trovare. Da qualche tempo ormai le banche centrali hanno allentato aggressivamente la politica monetaria nell'intento di non mancare gli obiettivi sanciti dal loro mandato, non da ultimo in termini di inflazione. Di recente è stata la BCE a intraprendere la misura più aggressiva, sorprendendo i mercati con le dimensioni e la scadenza indeterminata del suo programma di acquisti su larga scala di attività finanziarie. Ma dagli inizi di dicembre sono state più di 20 le banche centrali che hanno allentato la politica monetaria, anch'esse spesso cogliendo di sorpresa i mercati. Alcune, come la People's Bank of China o la Reserve Bank of India, reagivano soprattutto a condizioni interne; altre, come la Banca nazionale svizzera o la banca centrale danese, a condizioni esterne: i loro tassi di cambio si trovavano o rischiavano di trovarsi sotto enormi pressioni. Più in generale, l'elevata integrazione dei mercati finanziari significa che nemmeno un cambio flessibile è in grado di offrire un isolamento completo. Basti ricordare che il Diritto speciale di prelievo - il paniere delle principali monete di riserva - frutta attualmente meno di 5 punti base a tre mesi. In queste condizioni, un allentamento chiama l'altro.

Le azioni delle banche centrali hanno dimostrato che la cosiddetta soglia zero dei tassi di interesse è alquanto permeabile. I tassi ufficiali negativi sugli orizzonti brevi, affiancati in alcuni casi da acquisti su larga scala di attività finanziarie sugli orizzonti lunghi, hanno spinto tanto i premi a termine quanto i rendimenti nominali fermamente e ulteriormente in territorio negativo. Se si continuerà a procedere su questo cammino che non ha precedenti, i confini tecnici, economici, giuridici e persino politici verranno senz'altro messi alla prova. Sarà necessario tenere gli occhi aperti, poiché le conseguenze sarebbero rilevanti, per il sistema finanziario e non solo.

La combinazione di tassi di interesse negativi e acquisti su larga scala di attività finanziarie nell'area dell'euro contribuisce a spiegare un altro sviluppo eccezionale degli ultimi mesi: i rendimenti obbligazionari dell'area dell'euro sembrano aver influenzato significativamente quelli statunitensi. Dopo l'annuncio della BCE i rendimenti del Bund decennale sono scesi di 13 punti base, quelli del corrispondente titolo statunitense di ben nove.

Il livello così basso dei tassi riflette e rafforza due altri importanti fattori che stanno plasmando il panorama finanziario: riflette in parte la brusca flessione dei prezzi del petrolio, che insieme ai ribassi più contenuti di altre materie prime ha intensificato le pressioni disinflazionistiche a breve termine; e rafforza l'apprezzamento del dollaro USA, in linea con il diverso orientamento attuale e prospettico delle politiche monetarie e le diverse prospettive macroeconomiche. Da metà 2014 il tasso di cambio del dollaro ponderato in base al commercio si è apprezzato addirittura del 20% circa - uno degli aumenti maggiori mai registrati in un lasso di tempo analogo; contemporaneamente, si è intensificato il deprezzamento dell'euro nei confronti del dollaro, lasciando intravedere il raggiungimento della parità.

Cosa significa tutto ciò per le condizioni finanziarie internazionali prevalenti, ossia per la "liquidità globale"? È possibile che l'euro e lo yen si sostituiscano al dollaro nel suo ruolo di fattore trainante? Forse, ma solo entro certi limiti. Il dollaro resta la valuta più usata nel commercio internazionale, e ciò crea una domanda strutturale di finanziamenti in dollari. Inoltre, a prescindere dai nuovi flussi, le condizioni di finanziamento dipendono in ampia misura dallo stock in essere, poiché le variazioni dei tassi di cambio e dei tassi di interesse modificano gli oneri debitori pre-esistenti. A questo riguardo, il dollaro rimane protagonista indiscusso, come attestano gli oltre $9 000 miliardi di credito in essere a favore di soggetti non bancari al di fuori degli Stati Uniti; l'euro segue a notevole distanza, con $2 300 miliardi, perlopiù nei confronti di paesi limitrofi all'area. In tali circostanze, un ulteriore apprezzamento del dollaro, specie se accompagnato da una politica monetaria più restrittiva negli Stati Uniti, tenderà nel complesso a produrre un irrigidimento delle condizioni di finanziamento.

Allo stesso tempo, sono progressivamente aumentate le vulnerabilità, sulla scia della vigorosa espansione creditizia in vari paesi meno colpiti dalla crisi. In questa edizione della Rassegna trimestrale consideriamo congiuntamente vari indicatori della liquidità globale, inquadrandoli nella prospettiva più ampia delle dinamiche finanziarie interne ai singoli paesi - cosa che continueremo a fare periodicamente in futuro1. I dati mettono in luce vari andamenti degni di nota: la contrazione del credito bancario internazionale aggregato dopo il boom pre-crisi, soprattutto per via dei minori flussi fra paesi avanzati; la sua protratta forte espansione in molte economie emergenti, che talvolta ha superato quella del credito interno; l'impennata del credito in dollari USA in queste stesse economie; la crescente rilevanza dei mercati dei capitali, a scapito delle banche, quale canale di finanziamento; e infine i segnali - lo riconosco, spesso difficili da individuare - di un accumulo di squilibri finanziari interni.

Nel complesso, le condizioni della liquidità globale hanno rafforzato quelle interne. Va notato che in base agli ultimi dati i boom finanziari in alcune economie emergenti avrebbero dato i primi segni di cedimento. In particolare, la crescita delle attività verso la Cina contabilizzate dalle banche dichiaranti alla BRI è rallentata bruscamente, collocandosi ad appena il 3% su base trimestrale nel terzo trimestre 2014. Le attività interbancarie, poi, si sono addirittura contratte. Sarà opportuno seguire da vicino questa possibile svolta dei cicli finanziari interni, che interviene proprio quando le condizioni del finanziamento in dollari appaiono destinate a inasprirsi.

A fare da sfondo a questi andamenti è proseguita la ricerca di rendimento, nonché la dipendenza dei mercati dall'accomodamento monetario delle banche centrali. Le fibrillazioni seguite alla pubblicazione di dati vigorosi sull'occupazione statunitense, che anticipavano i probabili tempi di un rialzo dei tassi ufficiali, ne sono l'esempio più recente. La volatilità si è riportata sui valori medi storici, segnalando un'assunzione di rischio meno aggressiva. Ma i mercati non possono mantenersi liquidi quando è ormai da tempo che la via d'uscita si sta restringendo. Non bisogna farsi illusioni al riguardo.

Lascio ora la parola al mio collega Hyun Shin, che approfondirà alcuni di questi temi.

Hyun Shin

Vorrei soffermarmi in particolare sugli articoli monografici di questa edizione della Rassegna trimestrale BRI.

Come di consueto, abbiamo cercato di riunire vari studi che fanno luce su alcune questioni di attualità.

In questa edizione esaminiamo i costi economici della deflazione, l'evoluzione degli investimenti dopo la crisi finanziaria, il ruolo del debito nella recente flessione dei corsi petroliferi, le conseguenze dell'inclusione finanziaria per le politiche delle banche centrali e infine la liquidità di mercato.

Considerato il breve tempo a disposizione, mi concentrerò in particolare su tre di questi studi.

Il primo articolo, dedicato ai costi economici della deflazione e preparato da Claudio Borio, Magdalena Erdem, Andrew Filardo e Boris Hofmann, esamina le evidenze storiche sulla relazione fra deflazione e crescita del prodotto.

Il recente calo dei prezzi del petrolio e di altre materie prime ha spinto verso il basso l'inflazione generale in tutto il mondo, portandola in certi casi in territorio negativo. In gennaio il tasso annuo di inflazione generale era poco superiore allo zero nelle economie avanzate e inferiore al 3% in quelle emergenti.

I fatti documentati in questo articolo ci invitano alla riflessione. In primo luogo le deflazioni - definite semplicemente come cali dei prezzi di beni e servizi - sono un fenomeno alquanto comune nel periodo campione. Le 38 economie considerate sono state in deflazione per il 18% circa del periodo di tempo dal 1870. Va comunque rilevato che le deflazioni si sono fatte molto più rare e brevi dopo la seconda guerra mondiale.

In secondo luogo, nel dibattito comune il termine "deflazione" richiama alla mente le immagini della Grande Depressione, caratterizzata da un crollo della produzione e disoccupazione di massa. Ma le evidenze storiche indicano che la Grande Depressione è stata l'eccezione, non la regola. La crescita media risulta effettivamente maggiore nelle fasi di aumento dei prezzi che non in quelle di calo, ma questa relazione è dovuta quasi interamente al periodo intorno alla Grande Depressione.

In terzo luogo, indagando ancora più a fondo le evidenze storiche, gli autori scoprono che in particolare gli episodi di calo dei prezzi immobiliari si associano a flessioni molto più ampie del prodotto rispetto alle deflazioni dei prezzi dei beni.

Infine, non vi sono evidenze significative del fatto che la deflazione si sia accompagnata a spirali debito-deflazione, in cui un calo dei prezzi fa aumentare l'onere debitorio, deprimendo quindi l'attività economica.

Cambiando argomento, vorrei ora presentare lo studio sulla liquidità di mercato e l'attività di market-making nei mercati del reddito fisso. Sulla scorta di un recente rapporto redatto da un comitato di banchieri centrali sull'argomento, i nostri colleghi Ingo Fender e Ulf Lewrick documentano come le condizioni della liquidità di mercato siano cambiate all'indomani della crisi finanziaria internazionale.

Mentre nei mercati delle obbligazioni sovrane la liquidità è tornata alle condizioni prevalenti prima della crisi, in altri segmenti del mercato del reddito fisso la situazione è diversa. Ad esempio, i mercati delle obbligazioni societarie appaiono meno liquidi che in passato. I differenziali denaro-lettera sono tornati in prossimità dei livelli pre-crisi, ma permangono dubbi sulla capacità del mercato di far fronte a operazioni di elevato ammontare, specialmente nel caso in cui numerosi trader vogliano disfarsi di attività rischiose allo stesso tempo.

Abbiamo già visto casi di ampie variazioni dei prezzi in mercati normalmente caratterizzati da uno spessore e una liquidità elevati. Si pensi ad esempio a quanto avvenuto nel mercato dei titoli del Tesoro USA nell'ottobre scorso o alle brusche oscillazioni del franco svizzero in gennaio. Fortunatamente nessuno di questi episodi ha avuto ripercussioni durature per la stabilità finanziaria, ma quello che succede nei mercati finanziari non resta sempre nei mercati finanziari, e faremmo bene a prestare attenzione alle potenziali ripercussioni economiche delle turbative finanziarie.

L'articolo dedicato al petrolio e al debito illustra alcuni insegnamenti a questo riguardo. Io sono uno degli autori, insieme a Dietrich Domanski, Jonathan Kearns e Marco Lombardi. Il nostro studio evidenzia che dal 2006 il debito del settore petrolifero a livello mondiale è cresciuto di due volte e mezzo, e a fine 2014 si collocava a $2 500 miliardi.

Come abbiamo appreso dal mercato immobiliare durante la crisi finanziaria, quando un settore dell'economia è altamente indebitato un calo nel valore delle attività sottostanti può provocare turbative di breve periodo che ne amplificano l'impatto iniziale.

Il mantenimento di elevati tassi di produzione e il rapido accumulo delle scorte petrolifere potrebbero in parte riflettere le esigenze di liquidità dei produttori per onorare il servizio del debito.

In particolare, mostriamo che l'attività di hedging dei produttori comporta una eloquente inclinazione negativa della curva di offerta, per cui un calo dei prezzi si associa a un aumento delle vendite di petrolio nei mercati dei futures.

Le vendite in un mercato ribassista amplificheranno la reazione dei prezzi in una misura che dipenderà dalla liquidità di mercato e dalla capacità dei dealer di assorbire le vendite stesse.

La rapida flessione osservata di recente nei corsi petroliferi potrebbe in parte dipendere dalla minore capacità dei dealer in swap di assorbire le vendite. Questa osservazione ci riporta al tema della liquidità di mercato, già trattato dallo studio cui accennavo prima.

 

1 http://www.bis.org/statistics/gli.htm